Da economista ecologico, quindi da “tecnico” più che da esponente politico, vorrei condividere una riflessione legata al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
Ci siamo resi conto che abbiamo superato i limiti biosferici e con il supporto dei dati scientifici abbiamo riconosciuto lo stato di emergenza climatica e quella pandemica e tutte le altre crisi collegate.
Il momento cruciale di grande sofferenza economica è dovuto alla pandemia in corso che, a suo modo, è strettamente connesso al nostro stile di vita, all’inquinamento atmosferico e alla mancata attenzione alle leggi della natura.
Questa è un grande occasione che non possiamo sprecare, e la chiamiamo “transizione” perché in fondo è un passaggio fra due livelli, quello attuale in cui siamo ormai stretti in una morsa, ossia dover scegliere fra lavoro o salute, e un livello successivo, al quale aneliamo: la creazione di un modello economico dal volto umano, ecologico, solidale, equo e inclusivo, che possa riequilibrare le interazioni fra i sistemi economico ed ecologico-sociale.
Il PNRR Italiano è un ottimo piano, ma pecca di una visione parzialmente sistemica, la tutela dell’ecosistema non è ancora posta al centro, non siamo ancora in grado di passare dall’antropocentrismo al biocentrismo.
Il percorso di evoluzione della coscienza e anche della visione etica, necessita di tempo, un tempo che non abbiano. L’abitudine all’utilizzo di metodi di analisi e di calcolo obsoleti, ed indicatori prettamente economici, comporta un grande errore di valutazione. Così mentre cerchiamo di virare verso un paradigma culturale che potrà salvarci, la CO2 in atmosfera aumenta, la biodiversità si riduce, il suolo diventa meno fertile, l’aria si impregna di particolato sottile.
L’economia dovrebbe migliorare la qualità della vita di una comunità, aumentare il suo benessere, solo che non abbiamo considerato nei nostri modelli economici i flussi nascosti: le risorse naturali, i servizi ecosistemici. Quando in un qualsiasi libro di economia consideriamo il modello di scambio circolare tra imprese e famiglie, resta come variabile sconosciuta il contesto in cui avviene questo scambio, ossia: l’ambiente.
L’economia, con il tessuto delle imprese e la pubblica amministrazione, è posta all’interno dell’ecosistema che lo contiene e lo sostiene.
Proprio per questo, a mio avviso sarebbe stato opportuno andare oltre il raggiungimento meramente aritmetico della soglia posta dall’Unione Europea che richiedeva appunto il 37% del fondo per il green, e considerare modelli macroeconomici integrati per effettuare un’analisi di scenari futuri che insieme pongono variabili fisiche e variabili economiche. La spinta riformatrice dei policy maker deve sempre guardare, come fosse una bussola, al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.
La transizione ecologica doveva essere trasversale come lo è nel piano la parità di genere, l’attenzione ai giovani e al Sud. Bisogna creare dunque lavoro, abbattere le disuguaglianze territoriali ma seguendo costantemente l’obiettivo di tutela delle nostre risorse naturali, degli habitat, e della diminuzione di gas serra in atmosfera.
Potevamo dunque osare di più per la tutela del nostro ambiente. L’investimento considerato per tutelare la biodiversità ammonta a 1,19 miliardi su 231 complessivi, che corrispondono a 0,51% de totale, mentre ad esempio per il piano spagnolo si hanno 1,642 miliardi per la conservazione e il restauro di ecosistemi e biodiversità e 2,091 miliardi destinati a interventi su tutela delle coste e le risorse idriche, per un totale di 3,733 miliardi su 69,528 pari dunque al 5,37% delle risorse complessive.
Anche la grande rivoluzione dell’economia circolare è assente. Gli investimenti sono dedicati certo alla gestione del rifiuto, ad ottenere un riciclaggio del 55% per i RAEE, l’85% per la carta e il cartone, e il 65% per i rifiuti plastici, si punta al recupero del 100% nel settore tessile attraverso i “Textile Hubs”. Migliorare dunque la rete di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e a realizzare nuovi impianti di trattamento / riciclo, soprattutto nei comuni del Centro-Sud Italia.
Dimentichiamo la prevenzione, ossia evitare di formare nuovi rifiuti, utilizzando l’ecodesign sistemico, e poco spazio anche per la tutela della risorsa idrica e della biodiversità e per la strategia “Farm to fork”, o anche per le città sostenibili, (mobilità sostenibile solo 8,58 miliardi) ed infine il potenziamento del sistema dei controlli ambientali pubblici e dei percorsi partecipativi, perché si dobbiamo semplificare e velocizzare gli iter ma non certo imporre opere magari con poca trasparenza.
Al contrario trovo sia un ottimo punto di partenza, il progetto sulle isole verdi. Diciannove isole destinate a diventare laboratori, con l’obiettivo di renderle 100% verdi e autosufficienti, visto che attualmente la produzione di energia si basa su vecchie centrali, e l’approvvigionamento delle risorse idriche è costoso e fortemente impattante sull’ambiente come anche la gestione dei rifiuti. A tal fine verranno realizzati impianti di energia rinnovabile, soprattutto di tipo solare ed eolica con sistemi di accumulo, impianti di desalinizzazione e la separazione e lavorazione dei rifiuti con impianti dedicati.
È prevista anche la creazione delle comunità verdi, piccole comunità situate principalmente in collina o in montagna, dovrebbero nascere almeno 30 unità con una gestione innovativa e sistemica dell’edilizia abitativa, dell’agricoltura, della silvicoltura, e altre attività economiche comprese le ricreative. L’obiettivo principale è anche tentare di raggiungere l’autosufficienza e dare una risposta al drastico spopolamento delle campagne.
Nel recente summit sul clima il presidente americano Joe Biden, che ha preso la leadership mondiale sul tema, ha ricordato che la transizione green rende più competitive le nostre economie, che bisogna lavorare in questa direzione anche perché è oggi un fattore rilevante di competitività economica. Biden ha annunciato una coraggiosa riduzione del 50-52% delle emissioni di gas serra dei vari settori economici rispetto ai livelli del 2005. «Da tempo – ha invece ricordato Papa Francesco qualche settimana fa – stiamo prendendo maggiormente coscienza che la natura merita di essere protetta, anche per il solo fatto che le interazioni umane con la biodiversità, devono avvenire con la massima attenzione e con rispetto: prendersi cura della biodiversità, prendersi cura della natura. E tutto ciò in questa pandemia lo abbiamo imparato molto di più».
Ma dimentichiamo presto, a quanto pare.