L’uso diffuso e il costo relativamente basso della plastica fanno di questa materia un elemento onnipresente nella vita quotidiana.
Se, da un lato, questo costituente trova molteplici applicazioni in diversi settori, d’altra parte il suo uso è sempre più caratterizzato da applicazioni di “breve durata” (piatti, bicchieri, sacchetti, cannucce ecc..), caratteristica che si traduce in modelli di produzione e consumo inefficienti e lineari. Logica conseguenza, non essendo previsto alcun riutilizzo né un riciclaggio funzionale di tali prodotti, è il considerevole aumento della quantità di rifiuti prodotti e dispersi nell’ambiente, soprattutto in quello marino. Secondo l’Ocean Conservancy, i primi 10 articoli trovati sulle spiagge in ordine di grandezza, includono mozziconi di sigarette, involucri di cibo, bottiglie di plastica per bevande, tappi di bottiglia di plastica, sacchetti di plastica, cannucce , coperchi di plastica, tutti prodotti di scarto di una cultura usa e getta che tratta la plastica come materiale monouso anziché come risorsa preziosa da sfruttare.
Dati questi presupposti si comprende come la plastica sia diventata il principale nemico degli ecosistemi, ed è per questo che da diverso tempo assistiamo a numerose iniziative, la gran parte delle quali coordinate dal Ministero dell’Ambiente, per mettere al bando la plastica monouso.
Ogni anno gli europei generano 25 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, ma meno del 30 % è raccolta per essere riciclata. Nel mondo, le materie plastiche rappresentano ben l’85 % dei rifiuti sulle spiagge. Davvero troppo.
Da un’analisi dell’uso di diversi tipi di materie plastiche dal 2004 ad oggi, risulta che a livello mondiale si è fabbricata la stessa quantità di plastica della metà del secolo scorso e la quantità totale di materie plastiche vergini sia stata pari a 8,3 miliardi di tonnellate, principalmente derivate dal gas naturale e dal petrolio greggio, utilizzato sia come materia prima nei processi, che come combustibile per produrre energia utile, per i processi unitari di trasformazione della materia prima in prodotto finito.
Tra il 1950 e il 2015 sono stati generati un totale di 6,3 miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica calcolati considerando i primari e i riciclati; di questa quantità solo il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito, e il restante 79% immagazzinato in discarica o rilasciato direttamente nelle ambiente naturale.
Ma c’è un pericolo in più. Gli articoli in plastica più grandi possono subire una progressiva frammentazione per produrre un numero maggiore di “particelle microplastiche” più piccole, aumentando così la superficie complessiva del materiale plastico, migliorando la sua capacità di assorbire e concentrare inquinanti organici. Migliaia di microparticelle di plastica, infatti, sono contenute nei prodotti cosmetici, in quelli per l’igiene personale e nei prodotti industriali, o provengono da pezzi di plastica più grandi che si degradano. Essi variano per dimensioni, ma si tratta in genere di particelle di dimensione inferiore ai 5 millimetri, che possono quindi passare con facilità attraverso i filtri delle acque reflue, rendendo impossibile il loro recupero una volta in mare.
Le microplastiche giungono ovunque, e non dobbiamo sorprenderci se sono state ritrovate sulle Alpi e in campioni di ghiaccio prelevati dall’artico, in quest’ultimo caso giunte probabilmente dalle correnti oceaniche dalla zona di immondizia del Pacifico e dall’inquinamento locale proveniente dalla navigazione e dalla pesca. Il mare intrappola grandi quantità di microplastiche, le trasporta attraverso l’Oceano Artico e le rilascia nell’ambiente globale.
Attraverso la catena alimentare assumiamo microplastiche anche bevendo l’acqua potabile, visto che il 92% dei campioni di acqua prelevati negli Stati Uniti e il 72% in Europa hanno mostrato la loro presenza, anche se, attualmente non sono state riscontrate conseguenze sulla salute umana. L’Organizzazione mondiale della sanità ha diffuso diversi studi sui potenziali rischi della plastica nell’acqua potabile. Una recente analisi condotta su 259 bottiglie d’acqua di 11 marche differenti, provenienti da 19 località presenti in nove paesi diversi ha rilevato una media di 325 particelle di plastica per ogni litro di acqua venduta. Questo fa il paio con una ricerca austriaca che ha dato conto della presenza, per la prima volta, di tracce di microplastiche all’interno di escrementi umani.
Lo scorso anno la Commissione europea ha adottato la “Strategia europea per la plastica”, con l’obiettivo di rendere riciclabili tutti gli imballaggi di plastica nell’UE entro il 2030, affrontare la questione delle microplastiche (in particolare di quelle aggiunte intenzionalmente dai produttori e che dovrebbero essere bandite) e, in generale, frenare il consumo di plastica monouso e i rifiuti marini di tale derivazione.
La Strategia europea rappresenta un passo avanti verso l’istituzione di un’economia circolare in cui la progettazione e la produzione di prodotti di plastica rispondano pienamente alle esigenze di riutilizzo, riparazione e riciclaggio. Il considerevole impatto negativo di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, la salute e l’economia rende necessaria non solo l’istituzione di un quadro giuridico specifico per ridurre efficacemente detto impatto negativo, ma anche un’accelerazione pedagogica sul fenomeno, specie tra le imprese produttrici.
Secondo la stessa Commissione europea, oltre l’80% dei rifiuti marini è costituito da plastica. A causa della sua lenta decomposizione, la plastica si accumula nei mari, negli oceani e sulle spiagge di tutto il mondo, con l’inevitabile conseguenza di essere ingerita dalle specie marine (come tartarughe marine, foche, balene e uccelli, ma anche dai pesci e dai crostacei), introducendosi in tal modo direttamente nella catena alimentare umana.
In un’economia moderna è nostro compito ridurre la quantità di rifiuti plastici e garantire che la maggior parte di questo materiale venga riciclato, ed è per questo che, anche a livello nazionale, l’Italia non è rimasta a guardare.
Nel 2021, infatti, saranno dispiegati in pieno gli effetti della Direttiva 2019/904 (che il nostro Paese, nel frattempo, dovrà recepire), con la messa al bando di tutti i prodotti monouso in plastica. Il Ministero dell’Ambiente ha avviato inoltre un percorso per trasformare le amministrazioni pubbliche e invogliare le imprese private a diventare plastic free, in molti hanno aderito e sono stati ottenuti grandi risultati, ed infine va dato conto del progetto di legge c.d. “Salvamare” (in dirittura d’arrivo per l’approvazione finale) nel quale troviamo i pescatori, i custodi del mare, chiamati a raccolta per ripulire, e innescare una pratica virtuosa per la salvaguardia dei nostri mari.
In altre parole: vietare la plastica monouso, come fanno molti paesi e città; sostituire le materie plastiche monouso a base di petrolio con materiali bio alternativi, come carta, vetro o materie plastiche biodegradabili; oppure migliorare la copertura della raccolta dei rifiuti e inviare tutti i rifiuti raccolti alle appropriate strutture di trattamento di fine vita, garantendo così che la plastica abbia poche opportunità di “infiltrarsi” nell’ambiente.
Se non siamo in grado di migliorare i servizi di raccolta dei rifiuti e abbiamo una scarso controllo sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti nel loro mercato, risulta più semplice vietare il prodotto. Tali misure di riduzione, pur fornendo teoricamente una soluzione quasi immediata al problema, sono viste come una minaccia dalle imprese, in particolare dal settore della plastica locale, che sostiene le potenziali perdite di posti di lavoro che si possono prevedere di conseguenza, complicando spesso climi economici locali difficili.
Utopia? Non proprio. La vendita alla spina, ad esempio, costituisce un modello virtuoso, semplice ed economico del riutilizzo dei rifiuti di plastica e non semplicemente del loro riciclo. La vendita alla spina non solo riduce a zero tali rifiuti, ma incide sul contenimento del consumo di materie prime, dal momento che per riciclare la plastica si deve comunque usare nuovo petrolio e nuove risorse di acqua ed energia elettrica. Si stima che circa 2.654.374 flaconi di prodotti cosmetici riusati fino ad oggi si siano tradotti in 488.405 kg di anidride carbonica risparmiate all’ambiente. Un successo ed un punto di partenza che potrebbe traguardare un buon successo nella lotta all’uso indiscriminato della plastica, specie se tale iniziativa verrà accompagnata da altre azioni di simile tenore.
La risposta generalmente adottata dalle imprese (ad es. Proprietari di marchi e rivenditori), in cui hanno scarso controllo sul miglioramento dei servizi di raccolta dei rifiuti e non hanno certo intenzione di ridurre il consumo dei prodotti, è passare a progetti o materiali alternativi nel tentativo di ridurre il danno ambientale potenziale causato dai loro prodotti che fuoriescono nell’ambiente. L’ecodesign e la sostituzione dei materiali sono sempre più presenti nelle considerazioni delle aziende per la gestione responsabile dei prodotti a fine vita. Tuttavia, è necessario prestare molta attenzione durante l’implementazione di tali misure di sostituzione del prodotto, i passaggi a materiali alternativi bio dovrebbero essere supportati da una valutazione della sostenibilità del ciclo di vita, al fine di garantire che siano raggiunti benefici ambientali, sociali ed economici positivi netti.
Per una de-plastificazione del nostro sistema, in conclusione, è necessaria la buona volontà di tutti per avviare un green new deal, cambiamento che deve necessariamente passare per nuovi abitudini e un diverso stile di vita, ma soprattutto nella consapevolezza che la nostra casa comune, Gaia, non può più essere considerata come una discarica a cielo aperto.
(Senatrice Patty L’Abbate)
Fonte: https://www.ambientequotidiano.it/2019/09/12/l-abbate-plastica-principale-nemico/